Il narcisismo dell’era digitale: dal “fenomeno Ofelia” ai selfie

04.09.2015 15:06

Di Quirino Zangrilli

L’avvento dell’era digitale, l’interconnessione continua realizzata dai social networks. ha provocato profonde trasformazioni nella comunicazione sociale che si ripercuotono in ogni sfera dell’esistenza umana: dal lavoro allo svago, dalla politica all’arte. In questo articolo ne analizzerò alcuni, come la regressione narcisistica, il fenomeno dei selfie e le rappresentazioni, presso le adolescenti, di Ofelia.

 

Non sono un fotografo, anche se per anni ed anni ho stampato e sviluppato discrete foto in bianco e nero con il mio ingranditore Durst con ottica Schneider Componon, provenienti dai miei scatti realizzati con le mie tre gloriose olympus con ottiche originali Zuiko.
Ho amato moltissimo la fotografia prima che la mia vita prendesse la direzione della psicoanalisi e sequestrasse, come è giusto che sia per chi intende condurre una ricerca profonda, praticamente tutte le mie energie vitali.
Mi sento dunque un umile membro della grande famiglia dei fotografi amatoriali.
Sul piano della tecnica e della sintassi del mezzo fotografico, ovviamente, non ho nulla da insegnare, ma in oltre trentacinque anni di attività clinica nel campo della psicoanalisi ho appreso una serie di concetti a cui credo un fotografo, professionista od amatore, dovrebbe familiarizzarsi perché rende più consapevole le dinamiche profonde che sottendono l’agire fotografico.

Possiamo definire con un linguaggio un po’ démodé, ma a me molto caro, la fotografia come una cristallizzazione del protoplasma vivente.

Ora non si sviluppa quasi più in camera oscura, ma io conservo bene nella mente quel tempo d’attesa dove, come per magia, il rivelatore attivava i sali d’argento e da un tempo ormai storicizzato emergevano i ricordi vivi che erano sospesi in un altro mondo.
Ora so perché quei momenti mi esaltavano.
E’ la metafora del funzionamento dello psichismo umano.

 

Il lettore che sta leggendo questo articolo, in questo preciso momento, sta impegnando una parte delle sue energie mentali per seguire ciò che sto cercando di esporre, ma una gran parte dei suoi pensieri, emozioni, desideri è impegnata in un mondo che ci è sconosciuto, dove non esiste il tempo, né la logica, né le contraddizioni, in cui gli opposti coesistono ed in cui sopravvivono, come nella fotografia, immagini, pregne della loro risonanza affettiva, anche di 50-60-70 anni prima. Definiamo quel mondo l’inconscio.

In fondo lo psicoanalista è come il fotografo: non ha preso lui gli scatti ma si dedica al processo di sviluppo di un patrimonio che altrimenti rimarrebbe sepolto.
In seduta, soprattutto per chi come me pratica una forma di psicoanalisi che definisco intensiva, si verificano dei fenomeni di rievocazione a volte assolutamente stupefacenti: ti vedi davanti il vagito del bambino di 50 anni prima, i mostri dell’infanzia si materializzano, emozioni ed immagini rimaste nei fotogrammi psichici della mente vengono sviluppate e si appalesano, escono dal tempo e si cristallizzano davanti ai nostri occhi esattamente come fa una foto quando viene stampata su un supporto.
Di fatto anche i due meccanismi fondanti della mente umana, l’identificazione e la proiezione, richiamano perfettamente il processo fotografico.
Partiamo dalle loro definizioni:

L’identificazione, in psicologia, rappresenta quel processo mediante il quale un individuo costituisce la propria personalità assimilando uno o più tratti di un altro individuo e modellandosi su di essi.
Pezzi del mondo esterno vengono letteralmente ingoiati psichicamente, proprio come fa qualsiasi macchina fotografica, ed immagazzinati in un supporto, ieri i nostri cari negativi, oggi i byte delle nostre schede di memoria.

Le nostre esperienze di psicoanalisti ci dicono che la memoria è cellulare, certo il SNC è fondamentale per dare un senso ai ricordi, ma innumerevoli esperimenti di neuropsicologia hanno dimostrato che anche una cellula ha la possibilità di ricordare i traumi.

La proiezione è il meccanismo speculare dell’identificazione: un meccanismo di difesa arcaico e primitivo che consiste nello spostare sentimenti o caratteristiche propri, o parti del Sé, su altri oggetti o persone. Una sorta di ingranditore fotografico che dal supporto memorizzato proietta sullo schermo costituito dall’oggetto con cui stiamo interagendo una serie di informazioni, incompatibili con l’Io cosciente,  che contaminano profondamente la relazione.

Da questo punto di vista è impensabile che l’arte fotografica o l’interesse per l’hobby fotografico possano subire una modificazione profonda di qui a venire.
Cambia la tecnologia, si affinano le tecniche, i linguaggi evolvono ma il desiderio dell’essere umano di immortalare l’attimo, di impadronirsi del momento per poterlo reiterare e rivivere e, soprattutto, modificare non cambieranno mai.
Se ci pensiamo un attimo, fotografare è un atto difensivo contro la pulsione di morte che ci divora tutti.
La rappresentazione visuale è uno degli atti più arcaici dello psichico umano che lo solleva dallo stato animale.

Basterebbe guardare gli straordinari pittogrammi conservati nelle grotte dove vivevano i nostri progenitori di 35.000 anni fa, l’Uomo di Cro-Magnon, per capire quanto strutturale sia il bisogno dell’essere umano di Rappresentare e lasciare tracce.

La tesi che vorrei sostenere è che lo psichismo umano, con tutte le sue espressioni, segue dei cicli di espansione-contrazione. L’uno non può esistere senza l’altro. Uno sviluppo armonico e progressivo delle conoscenze, dell’espressività umana è una ingenua astrazione.

Per comprendere cosa sta accadendo nell’epoca del virtuale dobbiamo rifarci, molto schematicamente e semplificando a quelli che sono i processi di maturazione dello psichismo umano.

Contrariamente a ciò che si è creduto praticamente fino agli anni 60-70 la mente dell’uomo non nasce certamente come tabula rasa.
In utero, attraverso il sogno sismico prima e poi attraverso il sogno REM l’essere umano ha accesso agli archivi esperenziali della specie ed informatizza il suo psichismo reimpregnandosi delle esperienze traumatiche e non della sua linea ancestrale fino all’ominizzazione.
La nascita è al tempo stesso un momento traumatico di separazione ed una liberazione.

Prima ancora che i suoi sensi si affinino e gli permettano di interagire col mondo il neonato vive delle grandi angosce determinate dalla difficoltà di esaudire i suoi bisogni.

 

Comincia allora a sputare all’esterno i suoi incubi: da questo punto di vista la proiezione è primaria rispetto all’identificazione: prima di essere macchine fotografiche siamo dei proiettori.

la prima fase dell’esistenza umana è autoerotica e narcisistica. Tutti i tentativi fatti dall’essere umano sono finalizzati a rimanere nella propria sfera psicobiologica tentando di eliminare la percezione del mondo esterno che non possiamo controllare.

Il fenomeno di Ofelia.

Vorrei essere chiaro, quando parlo di Ofelia, non parlo delle sperimentazioni, dei processi creativi degli artisti, parlo dei casi-limite, dei fenomeni, spesso coatti, che inducono le adolescenti a raffigurarsi come ricorda Emanuela Costantini in una bella intervista che ha realizzato al sottoscritto sulla rivista FotoCult: “…immerse nel sonno eterno o in atteggiamenti estatici, in sembianze sublimi, abbigliate con vesti impalpabili e con il corpo adorno di fiori, in una sorta di stato di grazia. Spesso individuano nell’ambiente domestico il luogo in cui inscenare il loro trapasso – gettonatissima, la vasca da bagno – oppure boschi, prati, case diroccate”.

Credo che l’attuale epoca storica sia contraddistinta da una generale regressione narcisistica, probabilmente determinata dall’enorme pressione percettiva a cui siamo sottoposti, mai come in questa epoca.

Internet, lo si ripete fino alla nausea, annulla le distanze. Non è solo la rete che preme, sono le tv sempre accese, la musica in ogni dove, spesso priva di anima e ridotta a ritmo ossessivo intrauterino

 

Ora la distanza separa, ma al tempo stesso funge da difesa. La ridondanza degli stimoli determina sempre in ogni organismo, dall’ameba in su, un ripiegamento dentro se stesso nel tentativo di determinare un abbassamento delle sollecitazioni esterne. Ecco dunque che l’interesse si ripiega su se stessi, sul conosciuto, come se scattasse una sorta di reazione immunitaria psichica.

Scattare o farsi scattare questo tipo di ritratti, se è un’attività episodica, può significare un modo per esorcizzare la fascinazione per la morte. Se, invece, diventa una pratica ripetitiva e monotematica potrebbe essere la spia di un disagio psichico.

a proposito di Ofelia, le moderne tecnologie “social” danno più visibilità a fenomeni che sono sempre esistiti. Oggi basta uno smartphone o una fotocamera digitale per rappresentare e condividere sentimenti, ansie o aspirazioni.

Per la psicoanalisi, la morte è la rappresentazione simbolica di un vissuto di perdita, di assenza, di vuoto. Il mondo virtuale rende ancora più lacerante la solitudine generalizzata di una società frammentata e narcisista come quella attuale. E la donna, che piaccia o no, è l’essere umano che maggiormente vive se stesso come incompleto, mutilato. Una mancanza, rispetto all’uomo, che è quella fallica. Ovviamente tutto questo è vissuto a livello inconscio.

Nelle immagini di cui parliamo l’agonia è raffigurata solitamente eterea, sublime, ma talvolta anche violenta.

La versione più inusuale della morte, quella sublime, corrisponde alla rappresentazione inconscia del desiderio di soddisfazione orgasmica. Non a caso l’orgasmo fu definito dai francesi “la piccola morte”. Ciò si deve all’intima vicinanza dell’universo psichico femminile con il vuoto.

L’abbandono conturbante è la ricerca di un totale rilassamento e l’abbandono di ogni vincolo con il mondo, a volte spaventoso, altre volte attraente.

Il modo in cui le donne si vedono  e si rappresentano ha subito un notevole cambiamento soprattutto nell’ultimo ventennio. Per secoli, nel mondo occidentale, regole sociali e tabù religiosi hanno disciplinato duramente l’esercizio della sessualità delle donne, relegandole a una condizione di totale passività nei confronti degli uomini.

La recente liberazione sessuale ha risvegliato in loro appetiti atavici, trasformandole da prede a cacciatrici e a cercare il riscatto dalle esperienze di privazione e di sottomissione delle loro progenitrici. In mano a queste nuove donne, gli uomini sono diventati meri strumenti di fecondazione.

Il fenomeno del selfie.

Per comprendere meglio il fenomeno dei selfie, la sua travolgente appetenza, bisogna considerare un fatto apparentemente banale.
Nel selfie ci si fotografa, si può reiterare lo scatto, scartare le pose che ci urtano, scegliere quelle che ci sembrano meglio riuscite.
La verità è che quelle riuscite sono quelle che meglio collimano con l’immagine ideale che abbiano di noi stessi.

 

Quando ci vediamo in uno specchio non ci vediamo realmente: interponiamo tra noi e l’immagine reale che si riflette nel cristallo la nostra immagine ideale che fa da filtro e ci rassicura. E’ per questo che in molte foto “non ci riconosciamo”.
L’Io ideale è quella struttura che contiene le tracce dei vissuti onnipotenti narcisistici riguardanti la diade madre – lattante nel periodo fusionale.

Mi spiego in parole povere: il bambino non può nemmeno rappresentarsi l’idea che la madre sia un’entità staccata da lui: ha la necessità coatta di illudersi di dominarla, al limite è una propria estensione, come un arto.
Per questo si parla di madre fusionale.
Quando l’Io si trova in uno stato di impotenza nella gestione dei desideri e nella loro realizzazione l’Ideale dell’Io onnipotente fa vivere l’impossibilità come ferita narcisistica. E’ allora che si struttura questa immagine Onnipotente di noi stessi: un’ideale di potenza e perfezione per nulla scalfito dal mondo esterno.

Il selfie è un rituale rassicuratorio, un tentativo di tutela narcisistica. Ritiriamo l’interesse dal mondo, dai partner che non controlliamo, e ci dedichiamo a noi. Non ci può sfuggire il crollo verticale della sessualità oggettuale soprattutto eterosessuale presso gli adolescenti.

L’utilizzo del supporto fotografico in psicoanalisi intensiva.

Come Gioia Marzi ci ricorda in un approfondito articolo che ho avuto il piacere di pubblicare nella Rivista che mi onoro di dirigere “Scienza e Psicoanalisi”, la fotografia è stata impiegata in psicoterapia almeno a partire dal 1927.

In psicoanalisi intensiva è un importantissimo supporto tecnico che si può utilizzare, solo in periodi avanzati del lavoro analitico, pena l’erigersi pressoché irreversibile delle resistenze.

 

L’analizzato osserva prima ad occhio nudo e poi con l’ausilio di lenti progressive le foto che lo ritraggono e le foto di famiglia (fino a qualche anno fa si utilizzava anche l’episcopio, ora lo stesso risultato si ottiene con la digitalizzazione dell’immagine e con zoom successivi).

In pratica viene costretto progressivamente a ritirare le proiezioni sul supporto fotografico, abbandonando così il suo Io ideale, per vedere la nuda realtà di alcuni fatti oggettivamente frustranti o traumatizzanti.

Devo alle fotografie la penosa e spesso drammatica presa di coscienza di una madre totalmente assente, indifferente, immersa nei suoi pensieri che mostra un disinteresse totale per il lattante: che impatto lacerante, che urla di dolore!

Oppure, come il brevissimo frammento di caso che vi sottopongo per chiudere, la liberazione da un’immagine persecutoria che ha perseguitato l’analizzato per tutta la sua esistenza, negandogli la minima vita sessuale e di relazione.

Parlo di un uomo di mezza età che, accanto ad un disturbo alimentare, presenta una fortissima inibizione amorosa. Non ha una partner fissa e, prima di iniziare la sua analisi, aveva una vita sessuale ridotta al lumicino.

In tarda adolescenza era riuscito a costruire una relazione con una donna marcatamente androgina con cui aveva prevalentemente degli accoppiamenti da tergo che evidentemente da una parte soddisfacevano le sue spinte omosessuali latenti, dall’altra, evitando la vista della vagina, percepita fantasmaticamente come organo amputato, lenivano una intensissima angoscia di castrazione.

L’analizzato giunse dunque in seduta dopo un’astinenza sessuale durata ben 14 anni.

Apparentemente un uomo mite, in realtà era portatore di una struttura di carattere sadica, a volte camuffata da un’ostentata passività di tipo coatto, il cui vero scopo inconscio era quello di profanare, ferire, ledere la donna (madre). Covava fin dall’infanzia un odio inestinguibile ed al tempo stesso un’attrazione morbosa per sua madre. Un’ambivalenza profondissima che lo spingeva all’astinenza.

Era fermo ad una sorta di desiderio cannibalico: divorare la madre per fondersi con lei, distruggerla ed assimilarla, in una sorta di coito orale primario.

Parlava della madre come di una strega cattiva, che lo perseguitava, dominava, lo teneva praticamente per i testicoli, impedendogli praticamente di vivere.
L’analizzato aveva lottato per anni contro il desiderio di portare in seduta una foto di famiglia che raffigurava lui all’età di 3-4 anni in braccio a suo padre che aveva al fianco la madre che teneva per mano le sue due sorelline amate-odiate.

 

Ne aveva parlato tante di quelle volte che quando lo vidi arrivare in seduta con la foto di famiglia non volevo credere ai miei occhi.
Nell’esame ad occhio nudo, si invita l’analizzato a realizzare una sorta di griglia virtuale e a descrivere nel minimo dettaglio ogni cm2 della foto, non emerse nulla di nuovo.
ma quando il giovane uomo iniziò ad utilizzare le lenti di ingrandimento la difesa proiettiva iniziò a cedere consentendogli di vedere per la prima volta ciò che si era celato per quasi 50 anni.

Ascoltiamolo: “Ma mio padre si allontana da me! Che cazzo!

Gli do fastidio! Sembra schifato! Ed anche io, invece di cingergli il collo, lo allontano con un braccio. Evidentemente mi dava fastidio la sua vicinanza!”
L’analizzato aveva dormito per diversi anni nel letto con suo padre poiché la madre, per ragioni di lavoro, soggiornava per lunghi periodi lontano da casa ed aveva sviluppato una notevole fissazione omosessuale non agita.

Poi passa a sua madre: “Ma questa non è mia madre! Io questa donna non l’ho mai vista in vita mia! E’ una sconosciuta! Che faccia bella, simpatica, che ha!

Invece per me mia madre era un mostro, quella che mi sbranava, che mi voleva uccidere! Avevo il terrore quando mi si avvicinava! Invece non è così!

Mia madre in realtà era quel mostro: il dolore che avevo dentro! L’odio immenso che avevo per lei quando spariva e si ripresentava dopo un mese!”
In effetti l’interpretazione dell’analizzato è perfetta: la madre del giovane si allontanò da lui in piena esplosione dell’Edipo per andare a fare la balia in un altro paese.

Dava il suo seno agognato ad un altro: un tradimento orale incancellabile, ed al contempo il fulcro di un nucleo di fissazione quasi irrisolvibile. In verità quell’allontanamento determinò un’angoscia di annientamento talmente potente che quest’uomo non poteva allontanarsi per troppo tempo dal nido materno senza sperimentare un’angoscia di morte per deprivazione alimentare potentissima. Non solo, la frustrazione orale aveva determinato l’insorgenza di un odio cannibalico potentissimo: il bambino avrebbe inconsciamente divorato volentieri sua madre per incorporarla e trattenerla. Un desiderio incompatibile con la coscienza che aveva alimentato la proiezione delle spinte distruttive sull’oggetto materno, sovrapponendo per sempre l’immagine del mostro cannibalico sul volto della madre e per estensione sul volto di ogni donna impedendogli una vita sessuale degna di questo nome.

Fu grazie all’analisi di questa fotografia che il nucleo borderline venne sciolto con delle notevoli ricadute terapeutiche su tutta l’economia vitale del soggetto.

Siamo debitori verso il mezzo fotografico della insperata possibilità di aggredire posizioni nevrotiche gravi e persino borderline.

Testo originale reperibile su:

https://www.psicoanalisi.it/osservatorio/6063#.VPiHXvmG_dA